Per il Lupo – Recensione

Per il Lupo - Copertina

Cercate un libro che sia una rivisitazione di una delle fiabe più conosciute e amate dai bambini? Magari una storia riadattata in chiave Dark Fantasy, con un pizzico di Romance? Allora, Per il Lupo di Hannah Whitten, farà al caso vostro. È il primo libro di una dilogia, edito Mondadori e appartenente alla collana Oscar fantastica. Si tratta di un’opera che rientra a pieno titolo nel genere del retelling di cui sentiamo sempre più discutere: i personaggi rispecchiano quelli della fiaba originale (Cappuccetto Rosso) ma le vicende, in questo caso, vengono completamente stravolte.

Il regno di Valleyda convive da secoli col peso di un debito non saldato: la foresta al limitare delle sue terre, il Wilderwood, impone il rispetto di un patto sugellato col sangue. Ad ogni dinastia che si succede è richiesto il pagamento di un tributo per mantenere i mostri incatenati nelle Terre d’Ombra, una vita in sacrificio nella speranza di liberare i Cinque Re. È in questa realtà che vengono alla luce Neverah e Redarys, due gemelle accomunate dalla tempra forte e coraggiosa ma separate dal destino: la tradizione insegna che “la Prima Figlia è per il Trono e la Seconda Figlia è per il Lupo”.

Così le due sorelle crescono condividendo spazi e desideri, fino al giorno in cui Red viene costretta ad adempiere al suo compito. Ma la ragazza ha un segreto che tiene nascosto, una scheggia di magia che tenta d’intrappolare da anni – perché pericolosa per le persone che ama – e che la spinge a offrirsi ben volentieri alle grinfie del Lupo che abita il Wilderwood. E se quello che pensava essere una bestia fosse in realtà un uomo in carne e ossa? Se non tutti i miti letti nei libri fossero accurati? Se il mondo così come l’ha conosciuto fosse una menzogna?

“Sull’albero dove fecero il giuramento comparvero queste parole e io ho conservato la corteccia su cui sono scritte: la Prima Figlia è per il Trono. La Seconda Figlia è per il Lupo. E i Lupi sono per il Wilderwood.”

Partiamo dal principio e rinfreschiamoci la memoria: tutti conosciamo le vicende narrate dai Fratelli Grimm, le avventure di una dolce bambina che riceve in regalo una mantella di velluto rosso – da qui il nome Cappuccetto Rosso – a cui è molto affezionata. Un giorno la fanciulla viene mandata dalla mamma nel bosco, per accertarsi dello stato di salute della sua cara nonna, e incontra il lupo: una bestia all’apparenza innocua ma incredibilmente subdola e manipolatrice, che non mancherà di creare guai. E non scordiamoci del cacciatore, un uomo arguto che trae alla fine tutti in salvo – certo in maniera poco ortodossa, perché le fiabe hanno sempre un backcloth dai toni piuttosto macabri. Dimentichiamo però per un attimo la storia che siamo stati abituati ad ascoltare.

L’autrice – amante della lettura fin da piccola – conosce certamente quelle che sono le fiabe più note dell’infanzia, ma sceglie deliberatamente di incasellare il proprio racconto in un genere che vi si discosta. Abbiamo a che fare con un fantasy, dunque sono molti gli elementi incantati. Non c’è un semplice bosco ma una foresta viva che respira, cresce e si rimpicciolisce, ha fame e sente dolore. Viene descritto come un luogo oscuro dal quale tutti si tengono alla larga, isolato dalla realtà che lo circonda, spaventoso e pericoloso.

Hannah Whitten scrive da quando ha imparato a tenere una penna in mano.

Una prigione dalla quale è impossibile fuggire: se stringi un accordo, non ti lascerà mai più andare. Eppure, gli uomini non sanno che la foresta non è ciò che sembra e non può essere considerata crudele: tutto ciò che fa è tenere lontani i mostri, combatterli per proteggere il mondo dall’oscurità del sottosuolo. Vuole sangue – è vero – ma le serve per rafforzare i propri confini ormai labili, che rischiano di sprofondare.

Non c’è una bestia feroce ma un Lupo più umano che animale, legato indissolubilmente alla foresta in cui vive. Non ha scelto di restare intrappolato, non ha sugellato alcun patto con l’anima vitale del Wilderwood, ha soltanto ereditato una maledizione nata in tempi antichi e adesso non può sottrarvisi. Uomo e Natura s’intrecciano e si fondono in una danza mortale. Infatti, il Sangue non basta più, la terra ne vuole ancora e ancora, ed è qui che entra in gioco l’espediente per eccellenza del genere fantastico: la Magia. Una rete estesa e luminosa di Magia, quasi una ragnatela, che scorre come linfa nelle forti radici degli alberi – fino a toccarne i rami sfioriti – e fluisce dritta nelle vene del Lupo, germogliando e pulsando al ritmo del battito del suo cuore.

“E poi pensò al sangue. Alla violenza. A cosa si annidava sotto la sua pelle, un seme in attesa di crescere. Era quella la ragione. Non i mostri, né le parole. L’unico modo per tenerla al sicuro era abbandonarla.”

Non c’è un’ingenua e indifesa bambina ma una ragazza disposta a sacrificare la propria vita, pronta a rinunciare al potere che le cresce dentro per tenere al sicuro chi ama. Percepisce una forza lenta e incessante mangiarle l’anima, una visione che la divora insaziabile e scalpita per esplodere e travolgere tutto ciò che la circonda. È questo il simbolo dell’eterna lotta della mente contro il cuore: combattere per rinserrare gli incubi in un anfratto dimenticato, fare ciò che si deve e non ciò che si vuole davvero.

Ma è meglio dare ascolto alle voci o alle emozioni? La risposta è che il Wilderwood farà semplicemente ciò per cui è stato creato: trasformerà una giovane votata al martirio in una guerriera testarda, che si lascerà lacerare le carni ma continuerà a rialzarsi. E l’amore del Lupo trasformerà una fanciulla disillusa in una donna cosciente del suo dono e finalmente capace di piegarlo a suo favore.

Infine, non c’è un benevolo cacciatore ma un agglomerato di Oscurità. La speranza di essere salvati non è che una serpe che striscia silenziosa e velenosa, un groviglio che si dipana e infetta ovunque col suo marciume. Qui le sorti del Mondo si capovolgono e creano un ossimorico paesaggio in cui il Buono diventa il Cattivo, ciò che è Bianco diventa Nero, la Luce si fonde al Buio. Ogni realtà si tinge d’ombre a contrasto. E la Religione – da millenni indubbio approdo di un’Umanità alla deriva – non è più un rifugio sicuro. Gli adepti del Culto dei Cinque Re sono fautori della dipartita delle loro stesse credenze: le vesti candide si macchiano di sangue e i palmi in preghiera richiamano le tenebre. Perché, in fondo, quanto salda può rimanere la Fede se c’è in gioco l’inebriante profumo del Potere?

“Aveva stretto i denti pensando che ogni albero, maledetta foresta, avrebbe allungato i rami nella sua direzione.”

Protagonista indiscusso del romanzo è il Wilderwood: i ramoscelli bianchi e secchi delle Sentinelle si stagliano in un cielo costantemente purpureo che confonde il giorno con la notte; la nebbia avvolge chiunque in un abbraccio funesto e maschera alla vista ogni qualsivoglia dettaglio; il silenzio assordante è interrotto solo dal ringhio dei mostri e dal pianto degli alberi sofferenti; il terreno dissestato nasconde segreti che sarebbe meglio non rivelare. Insomma, questa foresta sembra uscita direttamente dalla penna di un Tim Burton delirante e in preda ad uno dei suoi più grandi momenti creativi.

Chiudendo gli occhi e respirando a pieni polmoni è facile percepire l’intrinseca connessione tra tutti gli elementi che ne fanno parte. Tra l’altro – proprio come in “Corpse Bride” – il suolo non è che un mero confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra ciò che si può toccare e quanto invece possiamo soltanto temere. L’orizzonte degli eventi oltre il quale non è concesso guardare.

Le tinte fosche del Wilderwood e il freddo e perpetuo inverno di Valleyda, comunque, sono lo sfondo perfetto per i personaggi che ci vengono presentati. Uno dopo l’altro sfilano ordinatamente Re e Regine succubi delle tradizioni, Lupi e Seconde Figlie vittime del destino, accoliti e sacerdotesse accecati dal potere. In un calderone così saturo di figure spiccano però, inevitabilmente, quelle dei protagonisti. All’inizio della storia Redarys è una ragazza cocciuta, risentita nei confronti di un fato che non le spetta e severa tanto con sé stessa quanto con gli altri; sua sorella Neverah, invece, è una ragazza incredibilmente mite e apprensiva, educata a tutta una serie di doveri in cui non si riconosce.

«Pensava di essere preparata a tutto, ma non a questo. Il Lupo era un uomo prima di essere un mostro»

Insomma, da una parte abbiamo una bellezza alla “Riccioli d’Oro” – con una chioma folta di boccoli biondi – quasi come a voler richiamare la luce e la vitalità della Magia che le scorre nel cuore; dall’altra parte abbiamo una bellezza alla “Biancaneve” – con la pelle candida e i capelli corvini come la notte – quasi a ricalcare il vuoto della spirale di Morte in cui si troverà coinvolta. Il loro aspetto estetico riflette la strada che sceglieranno di calcare e le loro indoli talmente diverse, ben presto, si mescoleranno e rovesceranno.

Poi c’è Eammon, un Lupo stremato dai millenni di conflitti che ha dovuto affrontare e rassegnato a lasciarsi andare ad una lenta e dolorosa rovina.

Cappuccetto Rosso o La Bella e la Bestia, voi che dite?

Nei suoi tratti, che ricordano quelli di un fragile uomo, è semplice individuare la solennità ed il vigore della foresta: il vincolo che li unisce si riflette sulla sua pelle e assume la forma di germogli taglienti, di iridi color smeraldo, di corazze fatte di corteccia e di corna come rami. Per quanto sia ormai avvezzo alla solitudine, dovrà prima o poi fare i conti con un sentimento totalizzante che lo strapperà alla sua quotidianità e gli impedirà di votarsi all’estremo sacrificio.

Altrettanto peculiari sono alcuni personaggi secondari, basti pensare a Fife e Lyra – amici, compagni e aiutanti del Lupo – o ad Arick e Kiri – rispettivamente promesso sposo di Neve e guida della setta religiosa che spingerà il Paese dritto nel baratro della decadenza. Le loro vicende non sono che una cornice della trama principale, è vero, perché si tratta di espedienti utili ai fini di renderla il più completa possibile.

Nonostante ciò, purtroppo, questo tentativo di arricchimento contribuisce solo ad aggravare la situazione di artificiosità che già si viene a creare in diversi momenti. In altri termini, evitare tutta una serie di situazioni trascurabili avrebbe reso il racconto decisamente più scorrevole e lineare, avrebbe facilitato al lettore il compito di ricollegare fra loro i fatti e avrebbe ridotto di molto il rischio di confonderlo. Come si dice, “a volte il troppo stroppia”.

“Forse non avrebbe dovuto ferirla, ma lo fece. E la cautela con cui si comportava, come se avesse misurato la distanza che voleva mantenere tra loro, era affilata come una scheggia e altrettanto irritante.”

Il narratore è esterno e onnisciente, non prende le parti di nessuno e si limita a delineare con schietta accuratezza i profili di persone e circostanze. Perfino le emozioni – specialmente quelle positive – paiono ridursi a sgradevoli contrattempi e il gelo della stagione in cui la storia è ambientata contamina tutto quanto. Sensazioni come la rabbia, la tristezza e l’amore vengono raccontate spesso con arido distacco e la fiamma che dovrebbe accenderle, piuttosto, viene smorzata dall’indifferenza. Questo sforzo perenne nel mantenere un certo controllo, una certa misura, si sposa alla perfezione col tempo passato della narrazione. I toni maestosi esigono infatti stoicismo, che però è a tratti eccessivamente marcato.

Le descrizioni delle ambientazioni sono minuziose al punto giusto – a scapito di quelle dei personaggi, che bisogna invece riuscire ad “interpretare” e “cavar fuori” tra le righe – ma non sempre pienamente comprensibili. Questo contribuisce a rendere il ritmo fastidiosamente lento, a tratti tedioso. Per fortuna la situazione cambia radicalmente in procinto del finale, quando inizia a susseguirsi una valanga di avvenimenti ricchi di phatos: i numerosi e repentini colpi di scena lasciano col fiato sospeso senza troppe difficoltà e stimolano a continuare a immergersi nel racconto per scoprire cosa accadrà. 

Per il lupo: il libro esordio di Hannah Whitten

Il linguaggio utilizzato non è esageratamente articolato e la peculiarità del genere Fantasy di riportare un’infinità di vocaboli inventati viene meno. Trattandosi di un’opera tradotta dalla lingua originaria non c’è da sorprendersi per la presenza di qualche refuso sparso qui e lì. Tutto sommato, il lavoro di parafrasi che c’è dietro è sicuramente curato.

Per il Lupo di Hannah Whitten è un cocktail di impressioni contrastanti ma miscelate in una ricetta complessivamente bilanciata. Se dovessimo cercare una parola chiave per riassumerne l’essenza sarebbe “Legame”, il rapporto d’interdipendenza che collega ogni dettaglio fisico o astratto che sia. L’autrice è brava nel riuscire a giocare con la paura dell’ignoto che tutti assaporiamo almeno una volta nella vita ed è astuta nel mostrarci la dualità che caratterizza Uomo e Natura. Il messaggio arriva forte e chiaro: ogni cosa è in eterno divenire, il mutamento non è qualcosa da ripudiare ma una qualità da sfruttare.