Visioni macabre di un dio – Recensione

Visioni macabre di un dio

Un dio non è soltanto un creatore benevolo, un nume tutelare. Esistono anche gli dèi malvagi, abietti e terrificanti, e non è raro trovare in letteratura esempi di questo genere. Dai Grandi Antichi di Lovecraft, passando per il Grande Dio Pan di Machen, fino al più recente Dio Bianco partorito dalla penna allucinante di Monica Ojeda, c’è una lunga tradizione di autori che hanno giocato con l’idea di divinità non benevole e orrorifiche, provenienti da altri mondi o altri piani di realtà. Francesco Zagaglia col suo Visioni macabre di un dio, edito Dark Abyss Edizioni, non è che l’ultimo di essi.

A Frecciano la vita sembra scorrere tranquilla, almeno fino a quando tre amici – Tom, l’Irlandese e padre Robert – non si imbattono in uno strano libro. A prima vista un semplice trattato di agronomia di altri tempi, il volume si rivela capace di scatenare tremende visioni in chiunque vi venga a contatto. Proiettati in un vero e proprio incubo a occhi aperti, i tre cercano la soluzione di un mistero che sembra collegato non solo al libro, ma anche alla vendita di una villa poco fuori il paese della quale nessuno parla volentieri.

Quello di Tom invece si godeva la vista dei colli infiniti, lontani, quasi un sogno per l’evasione mentale.

Il “raccontaccio” di Zagaglia – così è appellato nella prefazione – muove da una realtà ordinaria, quella della provincia italiana, che nondimeno si è già dimostrata un terreno fertile per le storie dell’orrore. I protagonisti sono tre: Tom, l’Irlandese e padre Robert, personaggi comuni con mansioni piuttosto ordinarie. A loro si aggiunge il narratore, che saltuariamente irrompe nella narrazione per commentare e prendere posizione.

La quotidianità di tali individui viene prima messa a dura prova, e poi sconvolta dal subentrare dell’ignoto. Ignoto che in questo testo arriva sotto forma di un libro, un semplice trattato di agronomia che presto si rivelerà essere tutt’altro. Che lo pseudobiblion alla base delle vicende abbia la forma di un manuale di agronomia è l’ennesima prova delle radici ordinarie e campestri di una storia che così ordinaria non è.

Poste tali premesse, che possono rappresentare un’attrattiva per chi mastica il genere dello small town horror – non serve scomodare Stephen King, anche in Italia ci sono ottimi esempi di questo genere, basta citare i lavori di Paolo Prevedoni e Alex GirolaVisioni macabre di un dio presenta alcune criticità che potrebbero impedirne una piena fruizione.

A volte anche il brutto è utile per scoprire la bellezza.

Fin dal primo capitolo si intuisce l’impostazione narrativa e stilistica che avrà il racconto. I primi personaggi a entrare in scena sono Tom e l’Irlandese; quest’ultimo è stato appena lasciato dalla sua ragazza, Laura, e nel delinearne il profilo l’autore spende molte pagine per rimarcare questo fatto – viene detto a più riprese che l’Irlandese non si abbandona a facili affermazioni, perciò se l’ha detto significa che è vero.

Per tenere fede alle proprie premesse, cioè presentare personaggi semplici in contesti ordinari, Zagaglia si serve di un registro medio, e medio è anche il tenore delle conversazioni dei due amici. I loro discorsi, infarciti di un certo generalismo, sono esattamente quelli che ci si aspetterebbe di sentire al bar del paese. Ma nell’avverare tale stereotipo, la narrazione ne risente in spessore. Per cercare di mantenere viva l’attenzione e al contempo rendere plausibile il discorso, l’autore adotta degli espedienti per renderlo colloquiale, come quello di posizionare il soggetto alla fine della frase, dopo la virgola, come a voler rimarcare che sì, è stato proprio lui a compiere quell’azione. Inoltre, è molto frequente l’uso dell’iperbole che hanno lo scopo di impreziosire la narrazione enfatizzando le azioni dei protagonisti.

Questi due espedienti rendono sì più credibile il tutto, ma rischiano di ripercuotersi sul ritmo della storia, specialmente per un lettore non particolarmente avvezzo a uno stile così particolare. Se l’autore rimarca con enfasi le intenzioni di certi personaggi, al contrario alcune azioni e passaggi risultano sbrigativi, togliendo a volte la giusta attenzione ai momenti più salienti. Molti finali di capitoli sono talmente dinamici che sembrano pensati da un punto di vista cinematografico. Ma se il cinema mostra, il linguaggio letterario richiede immaginazione, che senza una più approfondita caratterizzazione rischia di risultare confusionaria.

Tutti abbiamo bisogno di qualcosa di culturale a cui attaccarci.

Visioni macabre di un dio muove sì da un contesto ordinario, ma sconfina poi nell’ignoto. Il passaggio dal blu al nero viene qui condotto grazie al misterioso libro al centro delle attenzioni dei protagonisti, e che si rivela capace di scatenare tremende allucinazioni in chiunque ne venga a contatto.

Queste “visioni macabre” sono visivamente molto efficaci: Zagaglia mette alla prova il suo estro creativo nel ritrarre figure orrorifiche e immagini d’inferno, che a volte appaiono talmente nitide che diventa difficile distinguerle dalla realtà. Quanto di ciò che vedono i protagonisti sta realmente accadendo? Quanto è nella loro testa?

Sulla carta, l’elemento soprannaturale funziona ma a volte non è pienamente efficace. Padre Robert, il terzo protagonista e probabilmente il personaggio meglio caratterizzato del libro, raccomanda i suoi amici di non lasciarsi intimorire da queste visioni, ma di trattarle come se non esistessero, convinto che l’importante sia arrivare alla fonte e scoprire il mistero celato dietro al libro.

I protagonisti prendono queste sue parole fin troppo alla lettera: dimostrano una calma stoica, e a parte rare eccezioni non si lasciano spaventare dalle immagini inquietanti e sempre più distorte che affollano il loro campo visivo. La sospensione dell’incredulità viene messa fin troppo alla prova, diminuendo il potenziale horror del testo.

La parola ai lettori

Le premesse forse non sono state del tutto mantenute, ma nonostante ciò l’opera potrebbe trovare tra il pubblico un risposta positiva. L’alternarsi tra prolissità e il medias res, rende il ritmo altalenante. Questa intermittenza potrebbe essere non adatta a tutti. Altro piccolo dettaglio, su cui vale la pena soffermarci, è quello di Padre Robert. Personaggio che poteva essere approfondito e usato maggiormente per un climax in crescendo, emozionale e orrorifico, paragonabile a quello di Padre Callahan de Le notti di Salem o Padre Merrin de L’esorcista. Indubbiamente, l’autore prende influenze come quelle di Sam Raimi con La casa e l’ambientazione campestre. Queste potrebbero solleticare la curiosità del pubblico.