Zombie – Recensione

zombie copertina

Entrare nella mente di un serial killer non è un desiderio comune. La domanda “perché l’ha fatto?” di solito lo è. L’opera di Joyce Carol Oates (vincitrice del Bram Stoker Award for Novel nel 1995), Zombie edito Il Saggiatore, cerca di rispondere.

Lancia il lettore nel buco profondo di pensieri crudi e violenti che è la mente di Quentin P., un assassino sadico sessuale, ispirato al Cannibale di Milwaukee Jeffrey Dahmer.

Quentin P. sembra tante cose. Un nipote amorevole, un figlio freddo e incomprensibile, un fratello distante, un paziente modello per il suo psichiatra. In realtà è un pregiudicato per abuso sessuale. Tormentato da fantasie parafiliche che si alimentano della loro stessa insoddisfazione, cerca di rientrare nella normalità sociale ben rappresentata dalla sua famiglia. Non ci riesce. Quando scopre la lobotomia, il potere dominante che ne potrebbe ricavare, la sua immaginazione fa un salto avanti. Creare lo Zombie perfetto diventa la sua nuova ossessione.

“Perché un vero ZOMBIE non sarebbe mai in grado di dire qualcosa che non è, solo ciò che è. Avrebbe sempre gli occhi aperti e vigili ma gli mancherebbe dentro qualcosa che vede. O pensa. O giudica.”

Protagonista e unico punto di vista attraverso cui seguiamo le vicende, è Quentin P. Un disadattato. Un giovane uomo che non riesce a interfacciarsi con la società, a trovare il suo posto. Colpevole di atrocità in cui ricerca l’amore incapace di trovarlo modi più sani. Debole ai suoi capricci, bisogni, alla sua rabbia e alla sua solitudine.

Quentin P. però è anche un protetto. Protetto dal buon nome di suo padre ma non dalla sua paternità; protetto dalla cecità dei suoi famigliari ma non dal loro affetto. Vittima dell’indifferenza, carnefice repellente, difeso dal perbenismo.

Siamo dentro la sua testa, leggiamo ciò che pensa, viviamo con discontinuità la sua vita e sappiamo che Quentin P. non è un personaggio grigio. Crediamo sia una persona reale prima di chiudere il libro e ricordare che è proprio questo: una storia di finzione. Eppure Joyce Carol Oates ci permette di rispondere a quella domanda. Perché l’ha fatto? Non ci sono spiegazioni, non sappiamo cos’è vero e quali sono le bugie di Quentin. Sentiamo però quanto è distruttiva la sua rabbia e quanto lo è il suo bisogno di approvazione e compagnia, perché ci viene mostrato attraverso un filtro profondamente focalizzato. Le parole sono le sue, volgari, crudeli difficili, senza intrusioni dalla voce dell’autrice.

Non c’è un’investigazione da seguire, né altri personaggi da ascoltare. È tutto incentrato sull’evoluzione psicologica di un serial killer. La sofferenza di Quentin non è raccontata, la si trova nei sotto testi delle sue azioni. Non c’è una costruzione dell’empatia, nemmeno una frase che spinga alla comprensione. Solo un lungo soliloquio perverso e delirante.

“& è per quello che una sorella (o un fratello) ti conosce in un modo in cui non vorresti essere conosciuto.”

La punteggiatura quasi completamente assente e l’alternanza tra prima e terza persona rende visiva la dissociazione e l’alienazione. Quasi mai vediamo virgolette caporali, perché Quentin non presta attenzione a quello che gli viene detto, lo sente echeggiare e lo ripete nei suoi pensieri.

La scelta del lessico è propria di Quentin. Dettagli tecnici per ciò che studia, rielaborazioni disinteressate e presentate con noia per quello che invece non gli interessa. & al posto di e congiunzione derivano dal background informatico di Quentin. Parole e frasi in maiuscolo aggrediscono gli occhi, urla che irrompono nella voce mentale mentre si legge. Tra la fine di un capitolo e l’altro, spesso cronologicamente disordinati, i disegni e gli scarabocchi di Quentin contribuiscono all’immersività.

“Galleggiano le ossa? & se sì, ma a quelle ossa manca la carne & perfino le ossa vengono sparpagliate & si perdono l’una per l’altra, quale identità può mai rimanere. Cerco di non pensarci mai.”

Joyce Carol Oates scrive senza edulcorare. Sarebbe stato impossibile il contrario per essere ugualmente credibile. Scorrevole, schietta, semplice, precisa. La lettura può diventare faticosa a seconda della sensibilità solo per i temi trattati, mai per lo stile.

Zombie non è un’opera adatta alla delicatezza di chiunque. L’esplorazione di una mente perversa con un tale livello di profondità non potrebbe mai esserlo ed è questa la sua forza. Chiedersi, alla fine, come qualcuno sia stato in grado di immedesimarsi nella psiche di un serial killer a tal punto, da produrre pensieri e sensazioni così vivide e credibili.